Nasce dal dolore.
Nasce quando un’ostrica
viene ferita.
Quando un corpo estraneo
– un’impurità di sabbia – penetra al suo interno e la inabita,
la conchiglia inizia a produrre una sostanza (la madreperla) con cui
lo ricopre per proteggere il proprio corpo indifeso. Alla fine si
sarà formata una bella perla, lucente e pregiata. Se non viene
ferita, l’ostrica non potrà mai produrre perle, perché la perla è
una ferita cicatrizzata.
Quante ferite ci portiamo
dentro, quante sostanze impure c’inabitano? Limiti, debolezze,
peccati, incapacità, inadeguatezze, fragilità psico-fisiche… E
quante ferite nei nostri rapporti interpersonali? La questione
fondamentale per noi sarà sempre: cosa ne facciamo? Come le viviamo?
La sola via d’uscita è
avvolgere le nostre ferite con quella sostanza cicatrizzante
che è l’amore: unica possibilità di crescere e di vedere le
proprie impurità diventare perle.
L’alternativa è quella
di coltivare risentimenti verso gli altri per le loro debolezze, e
tormentare noi stessi con continui e devastanti sensi di colpa per
ciò che non dovremmo essere e per ciò che non dovremmo provare.
L’idea che spesso ci
portiamo dentro è che dovremmo essere in un altro modo; che,
per essere accettati da noi stessi, dagli altri e da Dio, non
dovremmo avere dentro di noi quelle impurità indecenti. Vorremmo
essere semplici “ostriche vuote”, senza corpi estranei di vario
genere, dei “puri” insomma. Ma questo è impossibile, e anche
qualora ci considerassimo tali, ciò non significherebbe che non
siamo mai stati feriti, ma solo che non lo riconosciamo, non
riusciamo ad accettarlo, che non abbiamo saputo perdonarci e
perdonare, comprendere e trasformare il dolore in amore; e saremmo
semplicemente poveri e terribilmente vuoti.
E’ fondamentale
giungere a comprendere l’importanza – in noi e fuori di noi,
nelle nostre relazioni – della presenza dei limiti, delle
ferite, delle zone d’ombra; capire, alla luce del
messaggio evangelico, che tutto ciò che del nostro ed altrui mondo
interiore è segnato dall’ombra e dal limite, è l’unica nostra
ricchezza, e che proprio lì è possibile fare esperienza della
nostra salvezza. Insomma, che non vi è nulla dentro di noi che
meriti di essere gettato via.
Tutto può essere
trasformato in grazia, persino il peccato, diceva Agostino. Persino
la nostra sessualità ferita e le nostre nevrosi, aggiungeremo noi, a
condizione di farne un’occasione per aprirsi, per accogliere e
condividere. Avremmo perciò torto a disprezzarle. Dobbiamo invece
imparare a farne buon uso.
Se cominciamo a ragionare
in questo modo, vuol dire che s’è compiuta in noi la vera
conversione, ovvero siamo finalmente giunti a non pensare più che la
“purezza”, l’assenza di debolezza e di peccato, siano la nostra
salvezza, ma proprio il contrario. La salvezza, la santità, sarà
finalmente renderci conto della nostra verità, ovvero che siamo
feriti, limitati, fragili, ma al contempo oggetto dell’amore
“folle” di un Dio che – proprio perché siamo fatti così
– viene a visitarci e ad inabitarci. La santità, in questa ottica,
ha così poco a che vedere con la perfezione che ne è l’assoluto
contrario!
Il Vangelo rivela
continuamente che tutto ciò che ha sapore del limite racchiude in sé
anche la possibilità del suo compimento. Gesù dice a ciascuno di
noi: “Ama quella parte di te che non vorresti avere. Comincia ad
avvolgerla con l’amore e alla fine constaterai di avere in te una
perla preziosa, perché nella ferita riconosciuta, avvolta
dall’amore, sperimenterai il tesoro che ti porti dentro”.
Con insistenza il Vangelo
ci esorta a “mettere nel mezzo” il nostro limite e la nostra
fragilità. Mettere nel mezzo le nostre zone d’ombra vuol dire
riconoscere da una parte la loro esistenza, e dall’altra che esse,
dinanzi alla resurrezione di Cristo, non sono l’ultima parola sulla
nostra umanità.
Dobbiamo deciderci se
optare per la forza o per la debolezza.
La nostra inadeguatezza,
la nostra debolezza, è una forza più grande di ogni altra, poiché
ha la forza stessa di Dio: “Quando sono debole, è allora che
sono forte” (2Cor 12,10).
Questa verità dovrebbe
tornare al centro del nostro vivere cristiano. Come già detto, nei
Vangeli al centro della scena vi è sempre l’uomo nella sua
malattia, nel suo essere ferito, debole, fragile. Perciò anche al
centro dell’assemblea (della comunità, della nostra famiglia,
della Chiesa…), al centro del nostro vivere da cristiani non
campeggiano la forza, il farcela da sé, l’osservanza ossessiva dei
precetti santi, l’essere moralmente irreprensibili… ma vi è solo
la nostra debolezza.
Tratto da:“Elogio della Vita
Imperfetta. La via della fragilità” Paolo Squizzato
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